Paesaggi dell’Anima
di Roberto Mutti
Un uomo con il cappello e quattro donne avvolte in mantelli e dotate di ombrelli, presumibilmente per proteggersi dagli schizzi d’acqua delle vicine cascate, sono ripresi di spalle. Non si accorgono di essere ritratti da Platt D. Babbitt, il fotografo americano che fu fra i primi a intuire le potenzialità commerciali del mezzo: posizionava la sua ingombrante fotocamera sotto un lenzuolo e quando si avvicinavano i turisti – cosa che avveniva spesso, visto che quelle erano le cascate del Niagara – li riprendeva di nascosto per vendere poi loro l’immagine scattata a sorpresa. Quel dagherrotipo del 1853 realizzato per ricordo, ai nostri occhi ora assume dopo tanti anni una valenza ben diversa e merita quindi un’analisi dettagliata. Il fotografo, “costretto” come era a non mettere in posa frontale i suoi soggetti come avrebbe fatto in un classico ritratto di gruppo, guarda nella loro stessa direzione condividendone lo sguardo. E’ una composizione che fa venire in mente quella analoga del “Viandante sul mare di nebbia” dipinto da Caspar David Friedrich trentacinque anni prima anche se qui del tormento e dell’irrequietezza romantica non c’è traccia e semmai l’atmosfera è dominata dall’incanto, quello provato dalle quattro donne e dall’uomo di fronte a quel paesaggio bello di una bellezza conturbante. Per capirlo fino in fondo bisogna compiere una particolare operazione mentale: immaginiamo di oltrepassare con lo sguardo i soggetti in primo piano per concentrare l’attenzione sullo sfondo. Ebbene, ci accorgeremo che quel paesaggio è molto meno minuzioso, preciso, in altre parole realistico di quanto avessimo immaginato. I lunghi tempi di esposizione necessari ad ottenere un dagherrotipo hanno reso fin troppo fluida la superficie dell’acqua e l’apertura del diaframma ha fatto in modo che una leggera sfocatura accentuasse l’atmosfera poetica. I limiti tecnologici del tempo hanno così involontariamente rivelato un aspetto nascosto della fotografia di paesaggio che solo molti anni dopo avrebbe avuto modo di rivelarsi in tutta la sua consapevolezza.
Già , perché le immagini realisticamente spettacolari hanno la strana caratteristica di compiacere l’osservatore ma di non lasciargli poi il graffio dell’immaginario conturbante che distingue le fotografie davvero importanti. Si ha la sensazione che l’aspetto prevalente sia la bellezza dei luoghi che il fotografo si è limitato a documentare facendo ricorso solo alla sua perizia tecnica. Così è per le immagini di stock e quelle usate per realizzare cartoline, copertine di quaderni e dépliant turistici:  sono belle ma non seducenti, piacevoli ma non intriganti, si lasciano guardare per sollecitare la gradevolezza ma non compiono quel percorso codificato da Henri Cartier-Bresson che coinvolgeva in egual misura l’occhio, la testa e il cuore.
Il salto di livello porta, invece, alla fotografia d’autore in cui è evidente il segno di uno stile e non importa se questo si realizza nel filone, nettamente prevalente, del paesaggio riconoscibile o in quello della sua trasfigurazione concettuale. Che le due visioni non siano necessariamente divergenti lo confermano autori come Ansel Adams, Edward Weston o Minor White, per citarne solo alcuni fra i più noti, capaci di leggere il paesaggio attraverso una vera e propria visione filosofica di stampo naturalistico che sapeva sia cogliere la realtà che oltrepassarla fino a sconfinare, talvolta, nell’astrazione. Differente è osservare il paesaggio come fosse un elemento oggettivo esterno oppure considerarlo uno specchio che riflette i propri sentimenti, le proprie emozioni e perfino la propria visione del mondo. Da questa seconda strada nascono opere straordinarie come “Equivalent” con cui Alfred Stieglitz si misura con le nuvole,  le composizioni geometriche di Franco Fontana che infatti ama affermare  “non esiste quello che vedete, esiste quello che fotografate”, gli scenari inquietanti di Edward Burtynsky, la pulizia essenziale del mondo delicatamente interpretato da Yamamoto Masao, la visione corposa e coinvolgente con cui Mario Giacomelli crea un dialogo interiore fra le pieghe delle mani del contadino e le ferite della terra coltivata, fra la luce che attraversa il cielo e i bagliori che emergono dal mare.
Questa lunga premessa ci è parsa indispensabile, ovviamente prescindendo da ogni possibile confronto, per inserire i nuovi lavori di ricerca recentemente realizzati da Rossella Pezzino in più ampio indirizzo estetico e culturale che li giustifica e nobilita. Se siamo di fronte a quelli che lei stessa definisce comepaesaggi dell’anima è perché questi sono l’attuale punto di arrivo di una ricerca interiore iniziata tempo addietro con scelte stilistiche assai diverse ed esiti molto lontani da quelli qui proposti. Il linguaggio immediato del reportage, che allora era nelle corde di Rossella Pezzino, nasceva dall’esigenza di sublimare la propria sofferenza in un confronto con quella di altre donne che la vivevano però in luoghi lontani e molto più problematici. Ma quello era appunto un primo passo che ben presto si rivelò insufficiente a soddisfare sentimenti più profondi e acuti da cui l’autrice si sentiva attraversata. Occorreva compiere un’operazione più radicale e farlo significava spostare la visione prospettica fino a considerare il mondo non per come oggettivamente appariva ma come specchio capace di conservare gli elementi della realtà e insieme di restituirli carichi dell’intensità delle emozioni provate. In un primo momento lo sguardo della fotografa si è concentrato sui particolari che, isolati dal loro contesto, finivano per assumere una nuova valenza simbolica anche perché implicavano una voluta frantumazione della materia. Il passaggio così concretizzato dal realismo descrittivo a una forma di astrattismo era legato alla crescente consapevolezza che questo processo esiste solo nella misura in cui è la volontà del soggetto a renderlo possibile. Non è estraneo a tutto ciò un progetto di grande bellezza cui Rossella Pezzino si è dedicata da anni con passione: “Le stanze in fiore” è un giardino che si estende per sette ettari creando un percorso fatto di aree concatenate dove si alternano piante tropicali e mediterranee, richiami orientali e angoli caratterizzati da una immediatezza spontanea. Attraversarlo, soffermarsi in esso, progettarlo e insieme indagarlo sono diventati così un vero e proprio esercizio di ricerca interiore che non poteva non avere riflessi nella poetica dell’autrice. L’ulteriore passaggio dai dettagli frantumati alla completa destrutturazione del paesaggio è storia recente innescata da un viaggio che ha avuto una funziona catartica spingendo nella direzione di una visione nuova, più autentica e profonda. Grandi territori deserti, lagune, luoghi dove l’acqua e la terra dialogano fra di loro contendendosi lo spazio sono così diventati la dimensione in cui la creatività ha trovato la sua nuova ragion d’essere. Il panorama non viene più visto in quanto tale ma come paesaggio dell’anima, come riflesso dei sentimenti che suscita. Si passa, quindi, dalla residua sofferenza che si ritrova nei titoli di alcune opere (“Strazio”, “Incubi”, “Paure”) alla progressiva crescita verso una liberazione interiore che da “Respiro” e “Leggerezza” conduce infine verso quella “Energia esplosiva” che sancisce l’acquisizione di una liberazione interiore. Lo sguardo si perde in una natura priva della presenza umana e che proprio per questo appare sconfinata, priva com’è di un qualsiasi parametro per definirne i limiti: si prova una sorta di sconcerto nell’abbandonarsi alle lievi increspature dell’acqua e ai suoi riflessi dorati e questo provoca anche un piacevole senso di serenità . Parallelo a quello delle fotografie è il percorso compiuto da Rossella Pezzino con i suoi ologrammi. Se prima questi sviluppavano la loro dinamica in strutture che ne conservavano il senso di meraviglia come fossero all’interno di uno scrigno, ora anche questi sembrano liberarsi verso l’esterno, poggiando su mensole trasparenti e provocando l’osservatore a una dinamica interattiva. Posti di fronte a queste opere tridimensionali che presentano scenari immaginifici – sfere, particelle, masse in movimento che evocano le grandiose trasformazioni dell’universo – tutti ci sentiamo attraversare da un senso di profonda meraviglia. Forse quella stessa che tanti anni fa devono aver provato i turisti alle Cascate del Niagara e il fotografo che li riprendeva mentre sentivano da lontano il rumore dell’acqua in perfetta sintonia con quello del loro cuore emozionato.