My Four Roots
Di G. Dunil, F. Rovetta, S. Pieralice
Lo sguardo di Rossella, seppur fortemente legato all’esperienza sensibile, può essere definito trascendentale, orientato alla comprensione di una realtà che si colloca oltre il visibile. Dai primi reportage realizzati in luoghi lontani ed evocativi, come “Giappone”, “Donne di Birmania” o “Frammenti d’Identità”, fino ad arrivare alla più recente produzione astratta, la sua opera non ha mai avuto semplici finalità documentaristiche. Il desiderio di intraprendere la carriera artistica è stato piuttosto animato dall’urgenza di cogliere l’essenza del soggetto, qualunque esso fosse, eliminando ogni superflua sovrastruttura e focalizzando l’attenzione sul particolare rivelatore. L’obiettivo fotografico, in tal senso, non opera esclusivamente la registrazione di un dato concreto, ma diventa strumento espressivo atto ad analizzare le molteplici stratificazioni di cui si compongono i fenomeni naturali. Da un simile disvelamento, emerge la trama del tessuto emotivo di cui si connota ciascuna esperienza, le tracce di una spiritualità latente ma sonora, distintamente percepibile nelle pieghe di ogni singolo scatto.
A tal proposito, se ci si interrogasse sulla specificità della fotografia, sulla peculiare caratteristica che la rende un mezzo espressivo pienamente legittimato nella propria esistenza e nella propria intrinseca artisticità, occorrerebbe prendere in considerazione l’ineguagliabile proprietà del medium fotografico di sondare la natura intima delle cose. L’obiettivo, strumento meccanico dotato di infallibile precisione, cattura ineluttabilmente un istante fugace, che scorre dinnanzi all’occhio del fotografo, il quale resta celato – seppur perentoriamente presente – dietro la macchina. Ed è proprio in questo subitaneo atto di eternare una realtà già scomparsa, già irreversibilmente mutata nel fluire della vita, che la fotografia non si limita soltanto ad una riproduzione: essa offre piuttosto l’opportunità di indagare i fenomeni con sguardo analitico e perfino di riformularli, di ricomporli in una realtà più reale della medesima.
In tal senso, la mostra “My Four Roots” si appresta ad essere un vero e proprio manifesto programmatico. L’artista compie un’operazione di ritorno all’essenziale, da un lato esprimendo il bisogno – umano, viscerale e tutto individuale – di rimettersi in contatto con le proprie origini, riconosciute nei quattro elementi naturali; dall’altro, ragionando in termini ben più universali, con la finalità di individuare le radici stesse del reale.
Questa duplice ricerca, condotta sia a livello esistenziale che teoretico, si traduce in un linguaggio artistico sempre più astratto ed immateriale, come a voler sottolineare che la vera essenza delle cose non può essere circoscritta in una forma chiusa e definitiva. Il risultato ottenuto è la delineazione di luoghi che solo in apparenza rassomigliano a dei paesaggi naturali, ma risuonano di vibrazioni interiori. Smaterializzati, privi di elementi antropici, essi acquisiscono la valenza simbolica dei luoghi interiori, degli spazi metafisici.
Non è un caso che la tecnica prescelta per compiere un simile percorso di analisi sia proprio la fotografia, una forma d’arte costituita da una materia incorporea ma onnipresente in ogni manifestazione del visibile. Le “impronte di luce” colte dall’artista sono la perfetta corrispondenza di significante e significato, in cui un’entità impalpabile con un’innegabile accezione spirituale dà forma ad ogni cosa.
A tal proposito è interessante notare come nelle sue fotografie ogni dettaglio venga sottolineato, accentuato, quasi in un’esasperazione della realtà, che si traduce in un’astrazione altrettanto totalizzante, in quanto investe ogni più piccola particella, ogni singolo atomo, di ciò che viene rappresentato. La macchina fotografica è un’alleata nell’accurata individuazione della struttura dei corpi fisici e, in questo preciso contesto, è possibile prendere nuovamente in considerazione la categoria estetica del “bello”, servendoci delle parole del celebre fotografo Edward Weston: “Si può invece rappresentare con la massima precisione l’aspetto fisico delle cose: la pietra è dura, la corteccia è ruvida, la carne è viva, volendo, le si può rendere più dure, più ruvide e più vive. In una parola, abbiamo il bello fotografico”.
Il percorso compiuto dall’artista si snoda in un arco temporale piuttosto dilatato, al fine di sottolineare come ogni passo sia una faticosa conquista delle proprie consapevolezze, fino alla rivelazione della quintessenza che permea ciascuno dei quattro elementi della Natura.
La ricerca prende avvio dalla serie “Cruel Colors”, realizzata nel 2015 e incentrata sull’elemento del Fuoco attraverso scatti realizzati in Dancalia, una regione dell’Etiopia che è anche la più grande depressione della Terra e la zona più calda del mondo. Nessun luogo potrebbe essere più adatto alla rappresentazione – fisica e sanguigna – di quella che, tra le “radici”, è senza dubbio la più carnale, la più pericolosa, la più primordiale. Le fotografie che catturano l’eruzione vulcanica in atto si caratterizzano per un netto dualismo cromatico, che accentua sensibilmente l’accensione fulminea dei rossi e dei gialli, mediante il loro isolamento sul fondo di un nero assoluto. Su quella che appare come una tela di scuro velluto, si stagliano gli zampilli di lava incandescente, che sembrano a tutti gli effetti degli arabeschi di colore, delineati da una sapiente casualità, quasi fosse un dripping. In una composizione così scarnificata, ribolle un magma di energia pulsante, che comunica con lo spettatore senza alcuna mediazione simbolica. Un discorso diverso richiedono le altre fotografie del medesimo ciclo, in cui le conformazioni rocciose, dai colori acidi e in evidente contrasto simultaneo, disegnano una morfologia inedita, non sovrapponibile ad alcuna descrizione geografica preesistente. La realtà è multiforme e cambia proprio sotto l’occhio attento della fotografa, che è in grado di rimodularla con le proprie opere, seppur solo provvisoriamente.
La passionalità cangiante del fuoco si stempera negli scatti modulati della raccolta “Alchimie Lineari” del 2016, dedicati all’elemento Acqua. L’Acqua costruisce realtà parallele, dà corpo a riverberi immateriali, raddoppia il mondo visibile. Le composizioni acquistano ordine, linearità, in una scansione fondata sulle direttrici orizzontali e su poche, essenziali, diagonali. L’organizzazione della superficie in fasce cromatiche è funzionale a narrare la poesia dei riflessi, delle contaminazioni reciproche di colori che si fondono e si specchiano l’uno nell’altro, delle alchimie armoniose che regolano la Natura.
Le fotografie del ciclo “Il Respiro del Cielo” scattate nel 2017 tra le montagne del Parco cinese Zhangye Danxia, portano il concetto stesso di astrazione ad un livello ulteriore. La Terra, vista dallo spazio, ovvero da un punto di vista privilegiato e onnicomprensivo, è blu, un blu variegato e mutevole. Proprio il blu, nelle sue sfumature più eteree e iridescenti, è il colore predominante negli scatti dedicati all’elemento Terra. La straordinaria intuizione di Rossella sta nell’integrare la visione complessiva del globo terrestre e la sua osservazione capillare, minuta, lenticolare. Ed ecco che alcuni dettagli ingigantiti di montagne si tingono d’azzurro, come se l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande coincidessero, come se venissero guardati contemporaneamente da vicino e da lontano. Non solo. Il blu, nella filosofia tibetana come nella mistica occidentale, è la materializzazione della spiritualità, del divino, dell’armonia, della quiete. La composizione, spigolosa e geometricamente solida, perde ogni connotato ben identificabile, appare fondata esclusivamente dalle pure forme. In questa progressiva purificazione, la catena montuosa diventa un luogo rarefatto e sublime, un’emanazione dell’anima.
La Terra si fa cielo, si innalza, e il cielo a sua volta si incarna, respira. Quest’ultima folgorazione deve aver attraversato la mente dell’artista anche nel momento in cui ha realizzato l’ultima serie di questo percorso, ovvero “Le Radici dell’Aria” del 2018. Come può l’Aria, elemento invisibile, immateriale, difficile da percepire, avere radici? Nella sua incontenibilità, incorporeità e mutevolezza, l’Aria possiede l’essenza del Divenire. L’artista, in breve, riesce a compiere il definitivo passaggio dalla poliedricità dei fenomeni all’immutabilità dell’essere, traducendo in poche sintetiche forme il caos primigenio che è all’origine del Tutto. Per trasporre in termini formali una simile conquista, la gamma cromatica è sapientemente ridotta a pochi toni di bianco, grigio, beige e a significativi profili neri, ad evocare la complementarietà di materia e vuoto. È il più alto grado di espressione di una fotografia condotta per via di “levare”, in cui la progressiva depurazione conduce alla catarsi. L’artista rifugge una retorica rappresentazione del cielo e sceglie piuttosto la via più ardua e complessa, materializzando l’etere e facendolo dialogare con la sua controparte terrestre. Il ciclo dedicato all’Aria richiama alla mente gli scatti del fotografo inglese Michael Kenna, la cui profonda e magistrale abilità tecnica dà origine ad immagini in bianco e nero, minimali, imperturbabili, silenziose, pervase di immensità. Parimenti l’artista, cogliendo il senso della storia che la natura trasmette, immortala luoghi sereni e poetici i quali, sospesi in un tempo indeterminato, misterioso, sganciato dal presente, figurano inesorabilmente come spazi eterni e sconfinati.
Lo snodarsi del cammino tracciato da Rossella porta a riflettere sulla natura stessa dell’atto fotografico, per concludere che tale gesto non è altro che una riorganizzazione consapevole del caos naturale. Come già teorizzato da un altro importante fotografo, Ansel Adams, l’occhio che cattura l’immagine riesce ad estrapolare la forma dalla confusione materica circostante.
L’esigenza di una smaterializzazione via via sempre più radicale si è espressa anche in una forma d’arte innovativa, dal carattere eccezionalmente sperimentale, ovvero l’ologramma. Esplorato dall’artista fin dal 2012, l’ologramma si fonda sul paradosso del realizzare immagini tridimensionali ma incorporee, virtuali, poetiche. Nel dare voce ai moti intangibili della propria anima, l’artista mette la tecnologia al servizio del proprio sentire, al fine di trovare il mezzo più adeguato e coerente per una specifica necessità espressiva. I colori, masse fluide e modellabili, si articolano nella sua stessa coscienza e lentamente si fondono, in modo indissolubile, con i ricordi e le sensazioni, fisiche ed emotive. Il desiderio è quello di plasmare in forma un turbinio di emozioni confuse, sedimentate nel corso di esperienze segnanti, perfino dolorose. Stati d’animo spaesanti gradualmente si delineano, diventano più chiari, più limpidi e vengono indagati da un occhio che – al pari dell’obiettivo fotografico – è in grado di decifrare la realtà, di scandagliarne i simboli e di produrne immagini rinnovate. Il dolore si alleggerisce, si smaterializza, produce bellezza.
L’ultimo mirabile risultato di questa ricerca sulle immagini impalpabili e multiformi è l’ologramma dal titolo “Uovo Aurico”. Forma perfetta senza fine e senza inizio, scrigno di vita e simbolo sacro che allude alla Resurrezione, l’uovo è stato scelto dall’artista per rappresentare sinteticamente la complessa totalità dei quattro elementi. Questa singola entità, in sé perfettamente conclusa, contiene riferimenti diretti a tutte le “radici” già precedentemente rievocate. Ecco allora che il guscio dell’uovo richiama la superficie ruvida e fragile della Terra. La membrana, per sua natura traspirante, concretizza l’Aria. L’albume, liquido e corpuscolare, materializza l’Acqua. Il tuorlo, giallo cuore pulsante, riecheggia il Fuoco. L’aggettivo “aurico” si connota di una accezione preziosa di perfezione, come a sottolineare la compiutezza di un microcosmo in cui tutti gli elementi sono complementari e ciascuno si nutre dell’essenza vitale dell’altro. Dal fuoco emerge una salamandra che, seppur lambita dalle fiamme, rimane illesa: la resistenza leggendaria di questo animale indistruttibile diventa dunque metafora dell’inesauribile capacità di adattamento dell’essere umano che, temprato da molteplici prove, è in grado di rimodulare costantemente il proprio modus vivendi. La salamandra rimane in equilibrio su di una trottola in rotazione perpetua, che evoca – senza soluzione di continuità – il passaggio dall’età infantile all’età adulta. L’oggetto, fortemente legato alla dimensione del gioco, traduce il bisogno di crescere, di riconoscersi in un’entità autonoma e individuale rispetto alla dualità madre-bambino, senza tuttavia rinunciare alle pulsioni più istintuali, più creative. Il moto continuo allude proprio ad un processo senza interruzione, dilatato in tutte le fasi della vita; il dialogo diretto con la salamandra, in questo senso, è fondamentale per sottolineare come l’essere umano debba rigenerarsi continuamente durante tutta la sua evoluzione. Per rendere ancora più efficace la comunicazione di un simile sviluppo, che si attiva nelle corde più intime dell’uomo, l’ologramma si tramuta in una spirale: forma geometrica in perenne ascesa, essa esprime già l’infinito e la ciclicità, oltre a rappresentare l’asse interiore di ciascuna persona che impara a ruotare attorno a sé. Nel suo vorticoso dinamismo può perfino ricordare una molecola di DNA, il più ricco archivio di ogni storia individuale. L’ologramma si chiude infine con una poetica immagine del cielo e del mare, fusi insieme sulla linea dell’orizzonte. Due metà divise e al tempo stesso unite in una sfumatura sottilissima, diverse e imprescindibili, come lo Yin e lo Yang, a dominare le irrinunciabili contraddizioni che abitano lo spirito di ciascuno di noi.
Il fragile ma sublime equilibrio che permea tutta la ricerca artistica di Rossella si esprime dunque in questa perfetta ambivalenza di pulsioni infernali e aspirazioni paradisiache, che le consente di narrare – attraverso opere di eterea ma carnale bellezza – una vicenda umana, dispiegata tra le molteplici sfaccettature dell’Essere.